I delegati dei popoli indigeni di sette Stati latinoamericani si sono incontrati il 22 maggio nella località amazzonica di Sarayaku in Ecuador. Nel mezzo della foresta tropicale più grande del mondo hanno dialogato sui propri diritti, sulle prospettive di esistenza delle proprie comunità e su come evitare lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali nei loro territori. Il cambiamento climatico e l’estrattivismo stanno distruggendo l’Amazzonia, la foresta tropicale più grande del mondo, che si estende su otto Stati. Le miniere illegali sono in mano alla criminalità organizzata.
Le delegazioni sono arrivate da Brasile, Colombia, Cile, Ecuador, Perù, Messico e Suriname. Oltre ai popoli indigeni sono stati presenti all’incontro anche i rappresentanti della tribù di origine africana Saamaka, dal Suriname, composta dai discendenti degli africani deportati in Sud America come schiavi. Per tre giorni tutti insieme hanno elaborato documenti e proposte per affermare i propri diritti all’interno degli Stati che attualmente amministrano i loro territori, così come peraltro è previsto dagli accordi internazionali.

A guidare la delegazione del Coordinamento delle Comunità Mapuche del Cile c’è Simón Crisóstomo, un geografo di 31 anni, che ha fatto appello a restare vigili per proteggere il futuro della vita dei popoli indigeni e per opporsi alle attività estrattive del petrolio e dei minerali: “siamo quelli che hanno difeso questa terra, non ora, non da ieri ma da centinaia e migliaia di anni. Contro il modello estrattivista, contro un pensiero che crede che la natura e la terra abbiano un prezzo che può essere pagato. Abbiamo un progetto politico di autodeterminazione, di pratiche di governo, ma anche di lotta contro l’estrattivismo, contro l’economia mineraria, contro le grandi aziende forestali che continuano tutt’oggi a depredare il nostro territorio, seccando i nostri fiumi e i nostri boschi”.

“Mentre noi siamo riuniti per difendere la vita, per difendere la natura, altri stanno escogitando come rubarci quello che è nostro. Tutti i nostri popoli originari subiscono violazioni di diritti ed espropri di risorse naturali”, afferma Pedro Chávez del popolo messicano dei Purépecha.
Il popolo Sarayaku, residente nella provincia amazzonica di Pastaza in Ecuador, è noto per la sua ferma lotta per la difesa delle proprie terre. I suoi delegati denunciano che il governo ecuadoriano non ha portato a termine il ritiro di centinaia di chili di esplosivo abbandonati da una compagnia petrolifera, così come previsto dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani. “Siamo in resistenza, siamo in lotta permamente. Tutti i popoli si sono uniti in questa esperienza di lavoro concreto contro questo sistema che ci vuole divorare del tutto” ha detto Daniel Santi, “kuraka” (autorità) della nazione Sarayaku. Lo sfruttamento del petrolio e del legno, la caccia indiscriminata, l’ampliamento delle zone agricole e le colonie avanzate nella foresta fanno parte del denominatore comune che attacca la biodiversità dei territori indigeni.
I Saamaka chiedono che il governo del Suriname riconosca la loro proprietà sulle loro terre, così come previsto dalla stessa Corte, nonostante recentemente siano state emesse concessioni per lo sfruttamento del legno, senza consultare gli abitanti locali.

I delegati non hanno criticato solamente le politiche degli Stati ma hanno analizzato gli esiti della COP promossa dall’ONU. “Nella COP non vengono prese decisioni sui diritti o sui problemi dei nostri territori che comunque non vengono risolti” ha affermato Hugo Javini, rappresentante della tribù Saamaka che, insieme al surinamese Wanze Eduards, ha vinto nel 2009 il Premio Goldman, noto come “Nobel degli ecologisti”. Il suo popolo vive su 1,4 milioni di ettari di foresta amazzonica che costituiscono il 9% del territorio del Suriname.
Alberto Talco, indigeno Cancuamo della Colombia ha sottolineato l’indifferenza degli Stati rispetto alle sentenze che difendono i diritti dei popoli originari che vivono in una situazione di abbandono. Ha esortato gli Stati ad assumersi la responsabilità della lotta contro il cambiamento climatico, così come previsto dagli obiettivi della COP30 che si è tenuta nel novembre 2024 in Brasile: “I nostri popoli custodiscono saperi ancestrali e culture specifiche, utili per combattere il cambiamento climatico che colpisce tutta l’umanità”.
Helena Gualinga, del popolo Sarayaku, una giovane che lotta per salvare il pianeta dalla crisi climatica, ha dichiarato che “i popoli indigeni meritano rispetto come tutti gli altri popoli, per i diritti umani e la dignità”.
