Intervista a Irene Testa, la prima Garante per i detenuti della Sardegna

di Franciscu Pala.

Finalmente la Sardegna ha la sua Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Si tratta della sarda Irene Testa, storica esponente del Partito Radicale, da sempre impegnata nella lotta per il riconoscimento dei Diritti Umani, per la promozione e il rispetto dello Stato di diritto nonché per la denuncia e il superamento del fenomeno dell’autodichia nelle istituzioni italiane. Le condizioni del sistema carcerario sono lo specchio dello Stato; una frase attribuita a Voltaire afferma che è proprio dalle carceri che si misura il grado di civiltà di un Paese. Ne parliamo brevemente con la neo-Garante sperando di avere nei prossimi anni di lavoro l’occasione di confronti più approfonditi sulle varie criticità del sistema carcerario e giudiziario italiano in Sardegna.

Come si è arrivati alla sua nomina dopo così tanti anni dall’istituzione di questa figura? 

Noi ci siamo battuti dodici anni fa come Partito Radicale per far passare la legge per dotare la Sardegna del Garante dei diritti dei detenuti. Ma il Consiglio non è mai riuscito a trovare un accordo e la carica si è trasformata in nomina.

Mi è stata chiesta la disponibilità e ho accettato. Per me è sia un onere che un onore.

La situazione penitenziaria in Sardegna è difficile, da dove inizierà a lavorare?

C’è un lavoro immenso da fare. Teniamo presente che la Sardegna ha molti istituti di pena, sono 12 i penitenziari. È una realtà complicata anche per la tipologia dei detenuti. Ma ci sono anche degli aspetti positivi perché in Sardegna esistono le colonie penali agricole che sono dei luoghi dove si sconta la pena prevalentemente all’aperto o in regime di semilibertà, in cui i detenuti hanno la possibilità di lavorare. Io ritengo da sempre che questo sia un modello interessante e importante da esportare.

L’attività lavorativa per i detenuti è importante anche per la società nel suo complesso?

Sicuramente, sappiamo che la rieducazione passa attraverso le attività trattamentali quindi sicuramente attraverso il lavoro che è un elemento che aiuta il detenuto nella fase detentiva ma lo aiuta anche nella fase del reintegro nella società. Dobbiamo evitare di continuare a fare l’errore di tenere le persone buttate in una cella che passano la loro giornata nell’ozio e che poi una volta che tornano libere spesso si ritrovano a non sapere cosa fare della propria vita, una situazione molto complicata. Il lavoro quindi è sicuramente un aspetto molto importante nella situazione delle colonie penali ed è un punto che tratterò con attenzione perché ritengo sia fondamentale che anche altri istituti possano imitare questo modello.

Detto questo possiamo negare che la situazione carceraria sarda presenti molte criticità?

Le carceri sarde hanno ovviamente tutti i problemi che si riscontrano a livello statale come la sovrappopolazione e la presenza di malati psichiatrici. Sono tantissimi, ogni volta che siamo andati a visitare le carceri abbiamo sempre potuto constatare che c’è un numero spropositato di persone che non dovrebbero stare lì dentro. Dovrebbero essere trasferite ad esempio nelle REMS, le Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Ma anche in questo campo in Sardegna c’è una carenza enorme di strutture, ce n’è soltanto una con una ventina di posti. Anche questo sarà un aspetto sul quale concentrarsi e lavorare.

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