Meno male che è solo un gioco… (o no?)

di Gianluca Serrenti

Qui, in questo nostro blog fatto di passione e condivisione, siamo soliti occuparci di tematiche, problemi ed argomenti più “seri” e concreti aventi a che fare con le sorti della nostra nazione e delle vite tanto nostre quanto (soprattutto) delle generazioni a venire, concentrati, assorti e attenti come siamo a proporre progetti, cercare soluzioni e costruire mattone dopo mattone l’edificio della repubblica sarda indipendente. 

Tuttavia, consentitemi di fare un’incursione in un campo (è proprio il caso di dirlo) piuttosto inusuale ma che forse, a questo punto, è meritevole di alcune considerazioni non foss’altro che per il seguito ampio e generale che esso implica. 

Cessando di essere criptico, mi riferisco a quello sport universalmente apprezzato che conta milioni (se non miliardi) di fan in tutto il mondo. E noi non facciamo eccezione, giacché gran parte del nostro popolo tifa o simpatizza per una squadra isolana che mette d’accordo meglio e più di quanto potrebbe fare un orientamento politico. 

Ci siamo pateticamente ridotti a vivere di ricordi

Una prima, triste considerazione, dunque, è il fatto che ormai ci siamo pateticamente ridotti a vivere di ricordi, sempre più sbiaditi e lontani nel tempo, di quell’unico successo eroico conseguito in una competizione neanche prettamente sarda, tra l’altro (perché quando saremo uno Stato sovrano ci organizzeremo campionati e manifestazioni sportive per conto nostro, come è giusto e logico che sia). 

Gianluca Serrenti, autore di questo articolo, componente del coordinamento nazionale di torrasardigna.org

Quanta acqua è passata sotto i ponti! Il che mi porta ad una seconda riflessione: come siamo decaduti penosamente ai margini di questo top sport (fino agli attuali bassifondi della massima serie) nel giro di cinque decadi! Progressivamente (ma forse sarebbe più corretto dire regressivamente) abbiamo finito per scivolare inesorabilmente (tra pochi alti e molti bassi) fino a toccare il fondo, negli ultimi anni e stagioni, con i recenti rovesci, osceni e indecorosi, che rischiano di farci di nuovo scendere di categoria. 

Terza considerazione: come siamo arrivati a tanta frustrante pochezza, come siamo potuti scendere così in basso? Se si eccettuano poche illuminate eccezioni, attraverso tutta una serie di padroni di turno, sovente avventurieri (e talvolta “continentali”) accreditatisi come imprenditori (benché col braccino corto e i calzoni rattoppati), persino titolari di aziende indagate per disastro ambientale – ma che importa se col pallino per quella che da sempre viene considerata (in ambito italiano, almeno) la valvola di sfogo di una società sempre più frammentata, disgregata, disorientata, disillusa e incattivita da anni di crisi, pandemia e ora pure guerra. Non è cambiato granché, se ci pensate un momento, dalla logica panem et circenses degli antichi romani. 

non è cambiato granché dal panem et circenses degli antichi romani

Ecco dunque spiegati anni ed anni di amarezze, sconfitte, umiliazioni, salvezze all’ultimo minuto, cocenti retrocessioni tra dirigenze dilettantistiche e improvvisate, responsabili tecnici inadeguati, giocatori acquistati già rotti o a parametro zero comunque scarto di altre squadre, dei quali parecchi vecchi scarponi bolliti giunti in Sardegna, oltre fine carriera, solo per svernare, il più delle volte mercenari prezzolati, con scarso attaccamento alla maglia (come si suol dire), sempre però profumatamente pagati mentre i comuni mortali devono fare i conti con cassa integrazione, sfruttamento, disoccupazione. Non possiamo tacere poi della complicità e connivenza dei media magari partner ufficiali della società e perciò spesso “aziendalisti” e sempre pronti a lisciare il pelo o per lo meno a non infierire con domande o commenti scomodi e poco graditi per quanto corretti e veritieri. Io che non sono sul libro paga di questi signori posso dirlo apertamente. 

In ultima analisi, se veramente lo sport, questo in particolare, è lo specchio della società, esso evidenzia in modo sintomatico che la nostra, anche in quest’ambito, è gravemente malata, avvelenata direi dalla dipendenza italiana, seguitando così – ed è questo il dramma – ad alimentare l’immagine di una terra desolata, sconfitta, avvilita, disprezzata. 

se lo sport è lo specchio della società, la nostra è gravemente malata, avvelenata dalla dipendenza italiana

Questo per dire e far capire che anche lo sport – quando finalmente saremo totalmente liberi di decidere noi, in prima persona plurale, della direzione che intendiamo prendere in qualsivoglia settore delle umane attività – dovrà essere rifondato dall’a alla zeta su basi completamente nuove e affidato a chi ha veramente e responsabilmente a cuore il benessere e prestigio della Sardegna, anche per finalmente frenare l’emorragia ed emigrazione dei nostri giovani atleti e talenti che danno lustro alle società italiane radicate nella penisola, in quanto costretti dal deserto organizzativo e finanziario locale a cercare fortuna oltre Tirreno. E allora sì che potremo avere le squadre nazionali in tutte le discipline sportive, per giocarcela alla pari con le altre nazioni del mondo. 

Per il momento, ma perché crucciarci dopo tutto, è solo un gioco, no? Sono ben altri i problemi, veri e quotidiani, della vita reale. Dunque a che scopo aggiungere depressione a depressione, per quattro calci ad una sfera? 

Artìculu prus bètzuPercorsi di indipendenza in Europa. L’intervento di Adriano Sollai.
Ateru artìculuLe rimozioni selettive? O l’ignoranza? Sull’ultimo numero di Jacobin Italia.