Sa Batalla, una sconfitta che non ha spento la brama di libertà del nostro popolo

di Gianluca Serrenti

PREMESSA

Al fine di onorare, come sempre da parecchi anni a questa parte, la dolorosa ricorrenza de sa Batalla de Seddori, che col suo esito infausto determinò l’inizio della fine della libertà dei Sardi, ripropongo (giacché repetita iuvant) il nucleo centrale, sfrondato dai questionari iniziale e finale e dal sondaggio di opinione (aggiunte che ritengo superflue e pleonastiche in questa sede, considerato il pubblico a cui mi rivolgo), dell’unità didattica da me elaborata e presentata molti anni fa presso il Monte Granatico della cittadina del Medio Campidano nell’ambito delle celebrazioni del suddetto cruciale accadimento storico, divenuto nel tempo sa Batalla per antonomasia, per eccellenza. Come ebbi a dire, in quella lotta cruentissima morimmo un po’ tutti, ma da essa siamo anche rinati, poiché l’abbondante sangue sardo sparso ha irrigato, nei secoli, la terra dalla quale il seme dell’indipendenza perduta è germogliato sviluppandosi robusto e vigoroso e, radicandosi nel passato, guida tutti noi verso un futuro di riconquistata libertà. Ecco dunque che ricordare e commemorare quel tragico e luttuoso evento ci aiuta a conseguire la piena consapevolezza di chi siamo e di che cosa vogliamo diventare.

Gianluca Serrenti

Molto tempo è trascorso da quei drammatici giorni, gravidi di conseguenze e forieri di sventure per il nostro Popolo, tuttavia ancora oggi risuona, nelle nostre menti, nei nostri cuori e nelle nostre gole, il grido di guerra Helis, helis Arbarè! che non per niente è il nome di questo spazio virtuale che ci accomuna e che un vecchio condottiero ci ha esortato ad urlare non più in un campo di battaglia, mestizia e morte, ma su un prato di pace, gioia e vita, quello di Zuràdili. Una chiamata alle armi metaforiche dell’unità, concordia, speranza ed umana fratellanza per tutti noi, forgiati dal fuoco della fede assoluta nell’inesorabilità ed ineluttabilità dell’avvento della nostra Repubblica indipendente.


SA BATALLA

Lo scontro decisivo tra l’esercito sardo-giudicale e quello invasore, catalano-aragonese, ebbe luogo tra il 26 e il 30 giugno 1409. Tali erano le forze in campo: il visconte di Narbona-Bas e giudice d’Arborea Guglielmo III, nipote ed erede di Eleonora, poteva contare su 20.000 uomini di cui 3.000 cavalieri (o 20.000 fanti oltre a numerosi cavalieri secondo altri, cifre comunque da ritenersi esagerate e poco credibili, anche perché provenienti dal versante dei vincitori); è dubbio se Leonardo Cubello, podestà di Oristano, abbia preso parte alla battaglia, mentre appare ormai assodato che Brancaleone Doria, vedovo di Eleonora, non vi partecipò, essendo probabilmente morto all’inizio di quello stesso anno. Dal canto suo, il re Martino il Giovane, figlio ed erede di Martino il Vecchio, poteva disporre di un’armata composta di truppe arruolate in Sicilia, di un contingente inviato dal papa scismatico Benedetto XIII e, soprattutto, di un esercito proveniente dalla Spagna, per un totale di 200 navi: complessivamente 8.000 fanti e 3.000 cavalieri sotto il comando di Pietro Torrelles. Numericamente, dunque, l’esercito del visconte era superiore a quello del sovrano di circa il doppio, sempre a dar retta alle stime di parte iberica, ma a questa superiorità quantitativa corrispondeva un’inferiorità qualitativo-logistica che in ultima analisi si rivelò determinante: infatti, a parte la pari consistenza della cavalleria, che fu la forza che decise le sorti della battaglia, il grosso delle truppe giudicali era formato da cavalleria leggera e da fanteria non professionale, mentre la maggior parte delle truppe regie era composta sia di cavalieri che di fanti dotati di armatura pesante. Inoltre, Martino poteva contare su un abbondante numero di balestrieri (un migliaio almeno) e persino su alcune bombarde.

L’esercito siculo-catalano-aragonese cominciò dunque ad avanzare verso le posizioni di quello del visconte-giudice il quale, uscito dal castello all’interno del borgo, aveva disposto i suoi uomini in posizione elevata. Martino, prevedendo che i Sardi avrebbero mandato all’attacco la fanteria, fece smontare da cavallo cinquecento dei suoi cavalieri, di quelli con celata, per meglio reggere l’impeto dell’assalto. Tuttavia, giungendo fino all’altura sulla quale, come detto, era attestato il nemico, in particolare la cavalleria, egli fece schierare la propria a destra e la fanteria a sinistra, dando così inizio al combattimento. Esso fu particolarmente accanito e cruento, una vera strage: l’esercito di Guglielmo, infatti, non resse l’urto della cavalleria nemica, sbandandosi al punto che, sempre secondo le stime dei vincitori, i Sardi avrebbero riportato sul campo perdite enormi: 5.000 morti e 4.000 prigionieri, mentre pochissimi nobili ispanici sarebbero caduti. È appena il caso di ribadire, anche qui, la parziale attendibilità di tali cifre, ciò nondimeno una conclusione appare ormai indubbia: il visconte, conscio della netta disparità logistica, preferì mandare allo sbaraglio le proprie schiere, ingenti ma fragili, con la speranza che il numero avrebbe prevalso sulla migliore organizzazione. Egli ripiegò col resto delle truppe nel vicino castello di Monreale ma, ancora incalzato dai nemici, fu costretto a rifugiarsi nella capitale Oristano. Coloro che, dopo la battaglia, si erano asserragliati nel borgo di Sanluri, fortificato, non poterono resistere all’assedio da parte degli uomini di Bernardo Galcerando de Pinós, Bernardo de Cabrera e Giovanni Dez Vall i quali, penetrati all’interno, espugnarono il castello abbandonandosi al saccheggio e al massacro, senza risparmiare la popolazione civile oltre che duecento balestrieri genovesi e cento fanti provenzali e lombardi: un migliaio di persone complessivamente.


CONCLUSIONE

Spero che la sintesi della descrizione di quegli avvenimenti sia risultata interessante, proficua ed utile nell’intento, come detto, di celebrare, rammentare e serbare la memoria di una sconfitta devastante che però non è evidentemente bastata a soffocare e spegnere l’anelito e la brama di libertà del nostro Popolo, come è ampiamente testimoniato dal fatto che, oggi più che mai, al contrario, ci stiamo ricompattando, serrando le file in vista di nuove, esaltanti battaglie, questa volta democratiche e pacifiche, per il conseguimento del nostro obiettivo. Ed è curioso e meraviglioso allo stesso tempo (ma la Storia spesso riserva simili ed apparentemente casuali e bizzarre sorprese) che i nostri acerrimi nemici di ieri, i catalani, siano fra i nostri migliori alleati di oggi, impegnati anch’essi, come tanti altri popoli nostri fratelli in Europa e nel mondo, nel cammino verso l’indipendenza.

Artìculu prus bètzuGiuseppe Flore
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