Gestione della pandemia. L’enorme deficit di sovranità dei sardi

La Sardegna entra in zona arancione. È la pandemia. Questo dice Roma.
Ma ha senso che il lavoro del barista di Torpé e Cagliari o del ristoratore di Ploaghe e Ussaramanna dipenda da decisioni sanitarie prese lontano della Sardegna, secondo parametri difficili da comprendere persino agli esperti?
No, non ha alcun senso.


Ed è tollerabile che la reazione del governo sardo, in circostanze del genere, si riduca ad affermazioni come: «Paradosso, ci tuteleremo», «Speriamo in una rettifica», «Non ce lo aspettavamo»?
No, non è tollerabile.


Ancora una volta, come spesso accaduto nell’ultimo anno, l’emergenza Covid-19 mette in evidenza l’enorme deficit di sovranità dei sardi, costretti ad adeguare le loro scelte, il loro lavoro, la loro stessa sopravvivenza a decisioni assunte altrove, senza che i sardi stessi possano mettere voce. E tutto in un continuo altalenare di teorie e ipotesi, che aggiunge insicurezza a insicurezza.
Così, abbiamo la Sardegna “chiusa” per almeno quindici giorni, senza alcuna certezza su eventuali ristori e su come le famiglie, soprattutto quante si reggono sul lavoro autonomo, possano andare avanti. La Sardegna, l’isola dei paesi e delle campagne, trattata e “misurata” alla stregua delle grandi città e delle metropoli italiane.


La Corona de Logu denuncia tale stato di cose e riafferma la necessità, per i sardi, di cercare la via dell’autogoverno. E, prima ancora, di un confronto anche duro con il governo romano. Cagliari si chieda e chieda all’Italia, ad esempio: perché Bolzano, zona rossa, tiene negozi e bar aperti?

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