Geppi Cucciari. Sardi orgogliosi di essere italiani?

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Ho stima di Geppi Cucciari che ha sicuramente il merito di promuovere con costanza la Sardegna all’interno del sistema televisivo nazionale italiano. Proprio per questo ho ascoltato con attenzione il suo monologo a Splendida Cornice andato in onda qualche giorno fa su Rai3. Ha parlato meritoriamente della storia di Ovidio Marras, il pastore che ha salvato Tuerredda dalla speculazione edilizia da parte di una ditta che voleva costruirvi un residence. Una storia che ha ispirato il film La vita va così. Un racconto che ha toccato molti e che alcuni hanno letto come una dinamica anticolonialista. Forse anche Geppi Cucciari, in buona fede e con molto coraggio, intendeva muoversi in quella direzione. Ma ascoltandola ho avuto l’impressione che, pur partendo da premesse verissime e da un sincero desiderio di dissenso, il discorso sia restato all’interno della logica subalterna, mettendo in luce il senso di smarrimento che molti sardi vivono nel rapporto con l’Italia.

“Se chiedi a chat GPT – dice Cucciari – chi è venuto a fare della Sardegna un proprio dominio finisce i giga. Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Pirati Saraceni, Pisani, Aragonesi… i Savoia sono diventati Re di Sardegna ma la casa madre era Torino. Sarebbe come se la Fiat avesse la sede ad Amsterdam…”

Una battuta affilata che fa sorridere e fa riflettere. Perché ci ricorda che la storia della Sardegna è stata attraversata da molte dominazioni, e l’ultima, la più sottile, non appartiene al passato ma al presente. Infatti ci si potrebbe chiedere in quale misura la nostra relazione con lo Stato italiano conserva tratti di quella logica di dipendenza coloniale.

Sarebbe come se, ad esempio, la Sardegna pagasse le proprie tasse all’Italia e non gli venisse restituita la quota parte che le spetta, fino al punto in cui lo Stato italiano accumula un debito con i Sardi di 1,7 miliardi di euro. Ah no! Questa non è una battuta, è esattamente così. Quindi sarebbe come se l’Italia versasse tutte le proprie tasse alla Francia e poi si chiedesse: come mai siamo poveri?

Ma il cortocircuito concettuale arriva alla fine del monologo: “siccome noi siamo sardi ma anche orgogliosamente italiani”, moderate la tirannia, rispettateci.

È un invito istintivo, nobile, ma che apre a una riflessione più profonda. In quanto il rispetto non si chiede, si conquista. Se non siamo noi per primi ad avere rispetto di noi stessi come possiamo pretendere che ci rispettino gli altri? Soprattutto se chiediamo rispetto in quanto siamo anche noi come loro e ne siamo pure orgogliosi

Ma qual è il popolo che è orgoglioso di essere come i suoi colonizzatori? Sarebbe come se i baschi fossero orgogliosi di essere anche spagnoli, curdi di essere anche turchi o i palestinesi di essere anche israeliani. Il paragone può sembrare forte ma se ci fermiamo a riflettere senza pregiudizi ci accorgiamo che è così: in molti rapporti economici, culturali, politici la Sardegna continua a vivere una condizione di subalternità

Pensiamo a tutto quello che viene deciso nell’interesse dello Stato, non della nostra terra: la vertenza entrate, il territorio occupato dal 70% delle basi militari italiane, le sperimentazioni belliche, la gestione dei trasporti aerei e marittimi, lo sfruttamento energetico, i piani di rinascita, le industrializzazioni folli, la devastazione ambientale e sociale.

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Esercitazione militare Trident Juncture a Teulada, Sardegna


È legittimo chiedersi quale libertà reale ha un territorio quando le sue risorse, le sue terre e le sue acque vengono usate per scopi decisi altrove? Forse in tutto questo è possibile riconoscere le dinamiche tipiche di un modello coloniale e subalterno?

La subalternità, come scriveva Placido Cherchi, nasce prima di tutto da una catastrofe del soggettivo: la perdita della differenza. “Non posso rischiare di essere confuso con altro. Questa mia autenticità, questa mia unicità di persona, mi deve essere restituita dalla mia differenza”.

È forse qui la radice del nostro problema più profondo: la difficoltà ad affermare la nostra identità senza contrapporla, ma anche senza dissolverla.

Essere sardi non dovrebbe significare essere diversi in senso antagonista, ma unici in senso pieno: consapevoli della propria storia, cultura e lingua, e capaci di dialogare con il mondo a partire da quella consapevolezza.

Perché la differenza è una forma di ricchezza: da essa nasce il confronto, lo scambio, la curiosità. Quando una persona o una comunità si sente valorizzata solo se riesce a somigliare a qualcun altro, ha già perso se stessa. E senza identità, qualunque popolo è destinato a scomparire nel frullatore dell’omologazione culturale.

Dovremmo forse smettere di rifugiarci nella retorica dei sardi fieri e attaccati alla terra, e chiederci se lo siamo ancora davvero. Forse fieri lo eravamo, cinquemila anni fa, quando abbiamo dato vita alla civiltà nuragica, una delle più raffinate e importanti del Mediterraneo. Oggi, invece, il sistema di cui siamo succubi non ci consente nemmeno di studiare pienamente la nostra storia, la nostra lingua, la nostra geografia: la scuola italiana ci insegna la storia d’Italia, non quella della Sardegna. Ci insegna a sentirci italiani, persino italiani speciali per via della Brigata Sassari, ma dimentica che l’unità d’Italia ha meno di due secoli, mentre la storia della Sardegna vanta cinque millenni.

Vinicio Capossela e l’immaginario sardo. Foto Maulu.

Forse il primo passo per ritrovare noi stessi è riconoscere serenamente che non siamo italiani speciali, ma sardi normali. E, a partire da questo concetto, costruire una classe dirigente capace di governare nell’interesse dell’Isola, senza l’ansia di compiacere Roma o di adeguarsi a modelli imposti dall’esterno. Perché fino ad ora chi è venuto dall’esterno con la Sardegna si è sempre arricchito, non capisco perché non potremmo farlo noi.
Solo allora potremo semmai parlare di orgoglio, di un popolo che si rispetta e che per questo è rispettato. Solo allora potremo immaginare uno sviluppo autentico, fondato sulle nostre esigenze, sulla nostra intelligenza, sulle nostre risorse.
E forse scopriremo che non serve più sentirsi antichi e fieri solo per ciò che siamo stati, ma moderni e felici per ciò che avremo costruito e saremo diventati.
Perché questa è l’identità: il noi che costruiamo oggi, attingendo al passato ma con lo sguardo rivolto al futuro. Un futuro libero, consapevole, felice e finalmente nostro.